Il cammino di Santiago dalla nostra inviata Elisa Pinna
6° puntata: Elisa arriva a Santiago!
Avete riconosciuto la figura misteriosa che si aggirava e scompariva nel chiostro di Armenteira? E’ la vostra pellegrina da strapazzo, ovviamente. Sotto la mantellina portavo il mio solito zainetto di rappresentanza. Stamane all’imbarcadero per la “Translatio”, la navigazione sul fiume Ulla da Vilanova di Arousa a Padron, mi sono presentata in abiti più sgargianti, anche se – a ben guardare l’immagine del viandante medioevale stampata con la ricevuta del biglietto – un po’ di nero non avrebbe guastato. Si parte alle 8.30 del mattino. A quell’ora gli spagnoli sono nel primo sonno e infatti trovo tutti i bar con le saracinesche abbassate. Per fortuna ci pensa l’equipaggio della motonave ad offrire un po’ di caffè caldo e anch’io, sintonizzata sui fusi dell’Italia e del Generalissimo, riprendo coscienza.
L’atmosfera a bordo è carica di allegria. Ci sono facce che riconosco. Alcune le ho incrociate per frazioni di secondo durante il cammino nei giorni scorsi. Ci salutiamo come se fossimo amici di una vita. Il pilota inserisce una cassetta di musica galiziana. Nonostante gli spazi ristretti, qualcuno prova a ballare. Approfittando della distrazione generale, riesco a conquistare il pulpito di prua (per intenderci quello in cui si abbracciano Leonardo Di Caprio e Kate Winslet nel Titanic), fino a quel momento occupato da due massicci tedeschi. Da lì domino come una polena l’avanzare della motonave nell’ampio bacino dell’Ulla. Penso che adesso sì, siamo veramente sulla scia di Santiago e dei suoi compagni, Teodoro e Atanasio. Il panorama è di grande bellezza, boschi, mulini a vento, spiagge, monasteri, cappelle e diciassette croci, distribuite su entrambe le sponde, per creare – così almeno assicura l’ufficio del turismo locale – l’unica Via Crucis acquatica del mondo. Il pilota procede a zig zag. La devozione religiosa non c’entra però nulla. Ci spiega, via altoparlante, che nonostante l’alta marea di due metri, il letto del fiume è pieno di scogli traditori in cui rischiamo di fracassarci. Penso ai compagni di Santiago, che sono risaliti quasi duemila anni fa con chissà quale imbarcazione, a vela o a remi. Uno era sicuramente in piedi sul pulpito di prua, nel punto in cui mi trovo io oggi, per controllare i fondali e avvisare gli altri dei pericoli. Immagino che anche loro abbiano respirato la stessa aria salmastra e abbiano sentito sotto i piedi la stessa potenza inarrestabile della marea dell’oceano incanalata in un fiume.
La motonave accosta intanto al molo di Padron, sotto una ciminiera che sbuffa pennacchi di fumo nero e che ci riporta bruscamente nel paesaggio urbano e industriale di duemila anni dopo. I miei compagni scendono in fretta, con gli zaini già in spalla, e scompaiono in un batter d’occhio. Vogliono arrivare in giornata a Santiago, che dista ormai “solo” trenta chilometri. Io me la prendo più comoda. Mi fermo nella parrocchia di Padron, dove è custodito, in una teca in vetro sotto l’altare, “El Pedron”, la mitica pietra chiara levigata, una specie di gigantesco osso, a cui legarono la cima d’ormeggio, dopo tanto navigare, Atanasio e Teodoro. Sopra El Pedron si legge un’incisione di epoca antica che racconta l’arrivo del santo. La storia non finisce certo qui. Una volta sbarcati in Galizia, Atanasio e Teodoro cominciarono a cercare un luogo degno per la sepoltura del loro santo e si imbatterono – narra la leggenda – in un’arcigna regina pagana, di nome Lupa, alla quale proposero di sostituire il suo pantheon di Dei con le ossa del loro amico. Per tutta risposta, la regina li fece mettere in prigione e poi cercò di eliminarli, usando un gigantesco serpente sul Pico Grande. Ma Atanasio e Teodoro ogni volta ritornavano da lei e la regina, alla fine, cedette alla richiesta di quei due ostinati palestinesi. Per scegliere il luogo preciso della sepoltura, l’urna con i resti dell’apostolo fu messa su un carro trainato da due buoi, che vagarono per ore nella campagna galiziana e alla fine si fermarono stremati davanti ad una fonte d’acqua. A pochi metri da quella fonte fu interrato San Giacomo.
E qui termina la prima parte della storia. Il secondo atto comincia circa ottocento anni dopo, nel IX secolo, quando un eremita di nome Pelayo, guidato da una luce accecante e da canti angelici, individuò il punto esatto dove era stato sepolto Santiago. Convinse il vescovo Teodomiro ad effettuare gli scavi e nel campo ribattezzato il “Campo della Stella” (Compostela), fu rinvenuta la tomba dell’apostolo. Erano i tempi della dominazione musulmana su gran parte della penisola iberica e la scoperta della salma fu interpretata come un segno del cielo. Il ritrovamento del discepolo di Gesù divenne il simbolo della Reconquista cristiana, conclusasi sei secoli dopo, nel 1492. Già nelle prime battaglie vittoriose contro i mori, i soldati cristiani giuravano di aver visto San Giacomo volare sopra le loro teste per guidarli e proteggerli. La sua tomba divenne meta di un pellegrinaggio ininterrotto, tanto che la Cattedrale di Compostela, eretta tra il 1075 e il 1211, fu poi modificata e ampliata più volte per renderla capace di accogliere le folle dei devoti.
Dopo altri mille anni, il pellegrinaggio di Santiago di Compostela non ha perso il suo fascino e continua ad attrarre milioni di persone da tutto il mondo.
“Perché hai fatto il cammino?” chiedo alla mia compagna di cena, una parrucchiera di Bologna, in un albergo di campagna ad una quindicina di chilometri da Santiago. “Non ho mai fatto nulla da sola in vita mia. Volevo mettermi alla prova. Il fatto di essere riuscita a vincere questa sfida con me stessa mi dà una forza incredibile”. Squilla il telefono. Sono alcuni suoi amici portoghesi conosciuti per strada, già arrivati a Santiago. Le danno appuntamento per il giorno dopo.
Penso che Melissa, il nome della mia nuova amica, abbia colto nel segno. Anch’io sono fiera di avercela fatta, nonostante gli anni, la schiena dolorante, le caviglie convalescenti. E spero che San Giacomo sia in definitiva soddisfatto di me.
Intanto è giunto il grande giorno: faccio il mio ingresso a Santiago, intruppata con altri pellegrini, sotto un sole torrido. “Forza signora, le manca poco’, mi incoraggia qualcuno. Prima di entrare in città, una contadina mi mette in mano monete che luccicano. All’inizio penso che mi abbia scambiato per una mendicante, viste le mie condizioni pietose. “Ma le pare…”, protesto flebilmente perché da un lato mi sento offesa e dall’altro sono incuriosita da quelli che mi sembrano dobloni d’oro. Fosse mai che sono finita in una fiaba, in cui la protagonista diventa ricca e felice… “è cioccolata, la mangi quando arriva; le darà forza”. Mangio i miei dobloni sdraiata sul letto, in albergo. Mi sono fermata per darmi una ripulita, riprendermi e presentarmi dal senor Santiago con abiti più decenti. Nella piazza di Obradoiro finisco in una calca di pellegrini appena arrivati. Si abbracciano, piangono, ridono, alcuni cantano a squarciagola. Ognuno festeggia a modo suo il tanto atteso momento, dopo giorni, settimane e, per alcuni, mesi di cammino.
Una volta giunta alla meta, pensavo di aver terminato i miei doveri di pellegrina e di dover solo incassare complimenti e attestati. Ci sono invece ancora una serie di incombenze da svolgere per rispettare la tradizione. Uno, andare ad abbracciare una statua di San Giacomo del XIII secolo, seguendo la fila che si inerpica su una scaletta alla destra dell’altare maggiore. Due, scendere altri gradini sulla sinistra, per raggiungere un interrato dove si trova la tomba del santo. Terzo, infilare le cinque dita della mano destra nei cinque buchi della colonna del Portico della Gloria: per ogni dito bisogna esprimere un desiderio e magari aggiungere anche un Padre Nostro. Quarto, dare una capocciata alla statua del Maestro Mateo, l’artista che terminò la costruzione della Cattedrale nel XII secolo: si dice che lo scultore-architetto medioevale vi trasmetta un po’ della sua sapienza. Infine, se non mi sono dimenticata niente, andare a bere alla fonte di Santiago, fuori della basilica, quella – per intenderci – dove si fermarono i buoi di Atanasio e Teodoro quasi duemila anni fa. L’acqua è miracolosa. Faccio appena in tempo ad abbracciare il buon Santiago e a sfilare, murata in una folla di pellegrini, turisti giapponesi e suore, davanti all’urna con i suoi resti, prima che cominci la messa del pellegrino alle 18.
La cattedrale è stracolma di umani di ogni età, tipo e nazionalità. Il rito è intenso e, al momento della comunione, mi ritrovo anche io con le lacrime agli occhi per la commozione. Qualche benefattore, che ha donato all’Arcivescovado di San Giacomo almeno 300 euro, ci offre a sorpresa lo spettacolo del Botafumeiro, una delle attrazioni della basilica, che di solito viene messo in azione solo nelle feste comandate. Il Botafumeiro, lo Sputafumo, è un gigantesco turibolo, che sparge nuvole di incenso sui fedeli volando alla velocità di 70 chilometri all’ora davanti al transetto dell’altare maggiore, con oscillazioni che raggiungono quasi il soffitto (per la precisione si fermano a 51 centimetri dal muro). Siamo tutti in piedi a sbracciarci con i telefonini e le macchine fotografiche, nonostante il celebrante ci avesse pregato di rimanere seduti e fermi per “motivi di sicurezza”. Un paio di volte, nei secoli scorsi, il Botafumeico si è staccato dal suo gancio provocando scene che vi lascio immaginare.
Sembra che il Botafumeiro, allora chiamato Turibulum Magnum, fosse già in funzione nel Medioevo. A quei tempi, i pellegrini dormivano in chiesa, e venivano di tanto in tanto irrorati di incenso, non solo per benedizione ma anche per attenuare gli afrori che saturavano il luogo sacro.
Finita la messa, ho un impegno ben più importante che perdere tempo a dare capocciate alle statue, che in realtà sono due perché non è chiaro chi sia Maestro Mateo e chi Ercole, o a infilare dita nei buchi delle colonne. Devo arrivare, prima della chiusura serale, alla Oficina de Acogida al Peregrino. Mi ritrovo dietro una coda degna della biglietteria di una finale di Champions League. Numeri elettronici segnalano gli sportelli che si liberano. Sono emozionata come se dovessi affrontare un esame importante. Un po’, in fondo, è così. Devo dimostrare, con i timbri raccolti sulla mia Credenziale, che ho percorso oltre 100 chilometri a piedi per ottenere la Compostela, il certificato ufficiale del pellegrinaggio compiuto. Sbircio nelle credenziali degli altri. Il mio sportello è il 17 e trovo una volontaria simpatica. Esamina i timbri, mi chiede alcuni chiarimenti (ho un buco nel giorno delle isole Cies) e mi fa compilare un modulo. Sono preparata. Alla domanda sui motivi del mio pellegrinaggio, metto la crocetta sia su spirituali che su religiosi, tanto per non sbagliare. Chi dichiara motivi sportivi, non ottiene la Compostela, ma solo un attestato in spagnolo di “distanza”, ovvero dei chilometri percorsi. E vuoi mettere con la pergamena in latino, in cui si dichiara il “perfecto itinere” di Elissan Pinna?
A cercare di rovinare il trionfo è un buzzurro romano che vedendomi in posa con il mio certificato per una fotografia davanti alla cattedrale, commenta con un altro brutto ceffo par suo: ‘aho’, ma che hanno dato er diploma pure a quella?”. Invece di annientarlo per la sanguinosa offesa, mi accorgo che non me ne importa nulla.
Festeggio l’ultima sera con una bevuta di birra Estrella, stella e benzina dei pellegrini, insieme a Melissa, la parrucchiera di Bologna, e ai suoi amici portoghesi, in cui riconosco la signora con le vesciche al piede e il chirurgo che ha operato lo scarpone. In fondo il mondo è piccolo e tutti si ritrovano a Santiago.
Basta. Comincia il ritorno. Treno fino a Vigo. Aereo per Bologna, nuovo treno per Roma. Casa. Rimetto la mia valigia verde in cantina ed ho un groppo alla gola, come se stessi abbandonando una delle mie adorate gatte in autostrada ad agosto. Salgo sulla bilancia e mi rendo conto di non aver perso nemmeno un grammo.
Capisco all’improvviso la morale: per tutti quelli che hanno compiuto il cammino di Santiago, esiste anche un dopo-cammino molto meno divertente. Ma questa è un’altra storia da raccontare.
articolo di Elisa Pinna