Le sette piante di Israele
La vite
Terra di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi di olio e di miele. (Dt 8,8)
La Terra promessa è la terra di latte e miele, terra che dona al popolo ciò di cui ha bisogno, terra che nutre, protegge e custodisce. Nella Bibbia il cibo ha un valore simbolico, rappresenta il bisogno dell’uomo di nutrimento, non solo fisiologico ma anche spirituale. Nutrirsi ha un valore di sacralità, preparare il cibo è un rituale e la tavola è il luogo delle relazioni e dei ricordi: a tavola non ci si siede, la tavola la si abita!
La vite, essendo il primo arbusto piantato da Noè dopo il diluvio (Genesi 9,20-21), viene percepita come simbolo di rinascita e soprattutto di speranza: anche quando tutto sembra perduto è possibile che il mondo risorga e torni a nuova vita. La sua simbologia, tuttavia, non si esaurisce nella sola azione compiuta da Noè: le scritture, infatti, ci conducono alla piena comprensione del suo significato attraverso un percorso graduale.
Nel Salmo 80 viene comunicato il suo valore simbolico: la vite rappresenta Israele e suggella l’alleanza che Dio ha stipulato con il popolo, “O Dio degli eserciti, […] proteggi quel che la tua destra ha piantato, e il germoglio che hai fatto crescere forte per te”.
Nelle prime pagine di Shir a Shirim, il Cantico dei Cantici, definito non a caso da Rabbi Eliezer il Santo dei Santi ossia il luogo più sacro per l’ebraismo, viene mostrato il suo valore teologico: l’immagine della sposa che custodisce le vigne con amore rappresenta l’amore infinito e gratuito di Dio.
Infine nel libro di Zaccaria viene svelato il suo valore messianico: quando giungerà il Messia, “in quel giorno ogni uomo inviterà il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico” (Zaccaria 3,10).
Per il mondo ebraico, dunque, il cibo è, ancora una volta, simbolo dell’opera salvifica di Dio. Il vino, prodotto dalla fermentazione del frutto della vite, è anch’esso un dono e come tale è elemento fondamentale di benedizione e santificazione in molti rituali: lo shabbat viene accolto con un calice di vino passato tra i commensali; durante il seder (pasto) della Pesach si bevono quattro calici di vino, simboli delle quattro azioni che Dio compie per liberare il popolo: “vi farò uscire, vi salverò, vi libererò, vi prenderò” (Esodo 6,6-8).
Sebbene il legame tra la storia della vite e la storia del popolo ebraico abbia origini molto lontane e abbia rappresentato molti momenti significativi del processo di liberazione e rinascita, durante gli anni della dominazione musulmana, a causa delle norme del Corano che vietavano di bere alcolici, i numerosi vigneti della TerraSanta sparirono. Passarono molti anni e solo nella seconda metà del 1800 si riaffermò la cultura del vino: nel 1848 fu costruita una cantina a Gerusalemme (la Zion) e nel 1882 il barone Edmond de Rothschild, proprietario in Francia del celebre Château Lafite, fondò a Zichron Ya’akov una cantina di vino, la Carmel. Negli anni successivi i vigneti rifiorirono e oggi le aziende vinicole israeliane producono un vino di qualità e dalle caratteristiche uniche. La diversità dei terreni e la varietà delle zone climatiche permettono, infatti, di produrre dei vini eterogenei e particolari, nei quali è possibile individuare sapori delicati e profumati che ricordano la terra e le sue delizie. Non perdetevi lo Chardonnay del Golan, lo Tzora delle colline della Giudea, lo Shiraz della Galilea o il Cabernet della Samaria!
Oggi non vi propongo una ricetta ma vi porto alla scoperta di un luogo speciale: si tratta di un fazzoletto di terra della zona C (terra palestinese sotto il controllo israeliano), che sebbene tristemente famoso per essere un luogo di separazione, di esclusione sociale e di violenza è anche diventato, grazie al vino, un simbolo di pace. A pochi chilometri da Betlemme, sulle pendici della collina di Cremisan, sorge un Monastero dei Salesiani che fin dal 1885 ha trasformato la brulla e sassosa terra delle colline della Giudea in un mosaico di filari. Arabi cristiani e musulmani, religiosi salesiani e laici europei, lavorano fianco a fianco e producono uno dei vini più buoni della Palestina, testimoniando come la convivenza tra culture e religioni diverse, sebbene difficile, sia possibile. Vi consiglio di visitare questi luoghi, di assaporare il senso di armonia e di pace che si respira e di degustare i vini da loro prodotti: il Baladi, un rosso aromatizzato e profumato, il Dabouki e l’Hamdani Jandali, due bianchi freschi e profumati. È un’occasione unica per immergersi nelle bellezze di una terra ricca di storia e spiritualità e per vivere in prima persona l’incontro con l’altro perché, come dice il filosofo gesuita Michel de Certeau, “Una verità interiore appare solo con l’irruzione di un altro. Perché si desti e si riveli, occorre sempre l’indiscrezione dello straniero o l’urto di una sorpresa. Bisogna essere sorpresi per diventare veri”.
articolo della nostra collega Francesca Arnstein